Irene

Casimiro era un cristo in croce, si, sempre un cristo in croce e le sue giornate erano sempre uguali: lunedì, martedì, mercoledì, sabato… Sottigliezze da comuni mortali. Lui, viveva nel sogno e nella realtà quasi alla stessa maniera e cercava di non fare domande perché aveva capito che il suo mondo era diverso. Sapeva di ricordare Casimiro, si, sapeva di ricordare cose che gli altri avevano dimenticato ma non era sicuro che fossero tutti ricordi veri: a volte la mente gioca brutti scherzi.

Così, meditativo, a volte assorto, con i suoi pensieri nell’aria. Gli regalarono una radio ma quella trasmetteva cose che erano lontane dalla sua immaginazione. Però la musica gli piaceva e lo faceva rilassare e da lontano si poteva vedere quel corpo mezzo morto che con le braccia in alto gesticolava dietro la musica di Bach.

Un pomeriggio mentre ascoltava la musica, gli capitò una di quelle scintille che lo proiettavano nel passato, in ricordi lontanissimi che scoloriti e stanchi erano ormai manifesti senza colore, malinconici e a tratti mancanti. La spiaggia, che fatica la spiaggia con la sabbia calda e che bello il mare. Il mare! Le pietre sul fondo e le forme ondeggianti e i pesci e le alghe. Ma anche la pece che resta attaccata sui piedi. L’ombrellone che odora di salsedine e un pescatore all’ombra di un grande peschereccio in secca che ripara le sue reti. Quell’uomo aveva la pelle di un colore rossastro, i lineamenti simili a quelli dei nativi del nord America con solchi profondi regalati da rughe antiche. E stava lì a riparare le sue reti con un cordino di cotone avvolto in un pezzo di canna e le sue mani danzavano esperte tra le maglie strette della rete che aveva lo stesso colore della sua pelle. Chilometri di rete distesa sulla spiaggia mentre il mare ondeggiava e dettava il compasso dei suoi movimenti. I piedi nudi e duri come di pietra e silenzio sotto i suoi baffi neri lucenti e la sua aria di antico millenario saggio.

Casimiro da bambino correva dietro ai grilli sulla sabbia ma il mare lo vedeva di rado e rimaneva affascinato, rapito da quella distesa di acqua scura non riusciva a fare un passo indietro, era come una calamita, bellissimo e pericoloso, forte spumeggiante freddo libero grande salato profumato…

Il mare si sfumò dietro al ricordo di una bambina che correva a piedi nudi sulla strada polverosa nel pomeriggio della siesta. La piccola aveva anche lei i tratti marcati dei nativi americani e i capelli ricci di un nero corvino e la faccia impastata di polvere e saliva. E rideva e correva fino a svanire nel fondo del vicolo tra i colori forti del mais e delle canne al vento. Ives, si chiamava Ives e correva, correva felice. Ma anche Ives sfumò nel ricordo e sparì dietro le canne. Restò solo lui, nel pomeriggio assolato a passeggiare sulla spiaggia deserta dove non c’era più nemmeno il pescatore. E si guardava i piedi con i sandali di cuoio scolorito e quei calzoncini blu dai quali uscivano due gambette vispe sempre sbucciate al ginocchio. E contava i passi e si girava indietro a guardare le sue orme immaginando un mondo visto da lontano. Il mare, la sabbia, il pomeriggio, il gelato, la bottiglia di aranciata, quella panzuta e coloratissima… Il pane con la mortadella, l’insegna di ferro con le foto dei gelati e il carretto della granita. I bambini con le biciclette e la musica del bar.

Quanti ricordi innescati come una bomba di malinconia e poi il risveglio riconoscendo il risvolto del lenzuolo bianco e la copertina verde in quella stanza di ospedale.

Ma dov’è il mare? Dov’è il profumo della sabbia rovente? Dov’è quell’aria perduta?

Passò un’infermiera che doveva prendergli la pressione e Casimiro la scambiò per Irene, la sua amica, quella che conversava con lui amabilmente mentre portava a spasso la sua bambola nel passeggino di plastica.

―Irene!

―Non sono Irene, lasciati prendere la pressione Casimiro.

―Non sei tu? E allora chi sei? Non sei Irene?

E si addormentò tra mille ricordi ancora vivi.

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